L’essere umano vive nell’incessante necessità esistenziale di compiere dei passaggi da una tappa all’altra.
Queste fasi sanciscono momenti di trasformazione significativi dell’individuo, alcuni dei quali socialmente riconosciuti altri meno.
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La vita dell’essere umano è scandita dal passaggio da una tappa all’altra
La nascita, il raggiungimento della pubertà, il matrimonio, la progressione sociale, la maternità o la paternità, la morte, sono tappe del ciclo di vita riconosciute, tanto che ancora oggi abbiamo particolari riti che hanno la funzione di celebrarle.
Il battesimo, il rito del matrimonio, il funerale oppure riti “laici” come ad esempio la festa di laurea fanno parte di questa categoria.
Questa tipologia di riti hanno la funzione di accompagnare l’individuo nel passaggio da una tappa all’altra e sono denominati, da antropologi e studiosi della materia, riti di passaggio.
I riti di passaggio sono diffusi dalla notte dei tempi in tutte le aree geografiche del pianeta, sebbene in epoche arcaiche, non si limitassero alle succitate tappe.
Anticamente infatti essi si occupavano anche di altre sfere della vita umana, tappe che l’essere umano a tutt’oggi compie nell’intimità del proprio mondo interiore e che non necessariamente visibili al mondo esterno. Possiamo chiamare queste fasi, tappe archetipiche.
Il ruolo delle tappe archetipiche nell’evoluzione dell’essere umano
Gli archetipi sono, nella filosofia di Carl Gustav Jung, campi di forza dell’inconscio collettivo, energie psichiche che determinano e controllano le attività fondamentali dell’essere umano, la sua personalità e la sua crescita mentale, emotiva e spirituale. Essi rappresentano energie collettive, collegate sì all’esperienza personale ma al tempo stesso universali, perché sperimentate da tutti gli esseri umani.
Le tappe archetipiche sono quindi da intendersi come tappe evolutive, che non si dispiegano necessariamente secondo un andamento cronologico preciso ma corrispondono a particolari stati, che possono svanire o ripresentarsi a più riprese nel corso della vita.
Di fronte a una situazione che crea un’emergenza interiore – che si tratti della fine di relazione, di un momento di crisi nella coppia, di un cambiamento lavorativo importante, di un particolare stato d’ansia o di un problema economico, di una malattia – l’essere umano si trova nella necessità di compiere un cambiamento radicale, di superare un limite e quindi di effettuare un passaggio.
Il passaggio da una tappa archetipica all’altra ha a che vedere con la necessità di lasciare lo status quo che appartiene a una fase evolutiva precedente, per passare a quella successiva.
Da una prospettiva antropologica, non si tratta soltanto di esperienze individuali ma collettive, che fanno parte del ciclo della vita di tutti gli essere umani, al pari della nascita e della morte, sebbene ciascun individuo le viva secondo la propria peculiare modalità.
Tuttavia, il fatto che nella società contemporanea occidentale abbiamo perso la ritualizzazione di questi eventi ha imposto una lettura “individualista” delle esperienze di crisi, con la conseguenza che tendiamo a viverle nella “solitudine” di una storia che pensiamo sia solo la nostra.
I riti di passaggio come pratica di superamento della crisi
Il rito ha avuto da sempre la funzione di facilitare e rendere effettivo il passaggio da una tappa all’altra dell’evoluzione dell’individuo.
Vediamo perché.
In primo luogo, il rito prevede la creazione di una microrealtà “sacra”. Con “sacro” non si intende una sfera relativa all’istituzione religiosa ma una realtà alternativa a quella profana, ossia a quella della quotidianità.
Qui le “leggi” della realtà quotidiana sono provvisoriamente sospese e ciò permette un allentamento della pressione sociale che l’individuo sente quotidianamente. In assenza di giudizi, condizionamenti e regole, egli ha la libertà esprimere le energie archetipiche in gioco e di sperimentare uno stato diverso che, al di fuori dello spazio rituale, non avrebbe consenso ad esprimere.
Per effettuare il passaggio occorre poi superare il confine, ossia quel limite presente nel nostro mondo interiore che non ci permette di passare alla tappa successiva.
Questo limite interiore si comporta allo stesso modo del confine che separa due Stati. Al di qua del confine vige la giurisdizione del nostro paese, che noi conosciamo molto bene perché ne siamo cittadini; al di là del confine invece ci sono altre leggi e, nel mezzo, la proibizione a passare.
Quindi, per valicare il confine e accedere a tutte le esperienze che l’altro paese ci può dare abbiamo bisogno di un passaporto, che ci autorizzi ad effettuare il passaggio. In caso contrario o rimaniamo nel nostro paese oppure se passiamo illegalmente commettiamo un reato, che avrebbe una serie di implicazioni.
Il confine interiore funziona più o meno allo stesso modo: abbiamo bisogno di un’autorizzazione per passare alla tappa successiva e il rito di passaggio ha la funzione di fornirla. Come una sorta di passaporto, esso consente di lasciare andare un vecchio stato esistenziale per approdare a uno nuovo, senza il quale rischieremmo di rimanere nella tappa precedente.
Il potere del rituale nella gestione dell’emergenza interiore sta proprio nella sua capacità di rovesciare l’esperienza individuale in quella collettiva, consentendo alle energie archetipiche di esprimersi e di essere esternate, passando in questo modo da una dimensione inconscia a quella della coscienza e della consapevolezza.
In questo modo, inoltre, l’individuo ha possibilità di ricevere sostegno e riconoscimento della sua situazione da parte del proprio gruppo di appartenenza.
Sebbene la società in cui viviamo abbia dimenticato l’importanza dei riti di passaggio, ognuno di noi può ri-creare le ritualità di cui ha bisogno attraverso tutti quegli strumenti – come le costellazioni familiari sistemiche, pratiche di tipo sciamanico, la psicomagia e il teatro – che hanno mantenuto e/o recuperato nei loro metodi la connessione tra la storia individuale e collettiva.
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